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I sentimenti di un normale giorno di maratona

 
Come molte maratone anche questa edizione della Milano City Marathon si annuncia per me con una sessione all’alba sulla tavoletta del gabinetto. Ho cercato di distrarre in tutti i modi il mio sistema parasimpatico, con un uscita al cinema, spremute di limone, ma la mia pancia lo sa che questo è quel giorno alla fine di sedici settimane di allenamenti in cui lei e gli altri organi tutti saranno messi alla prova in uno sforzo prolungato non da seduti. Ma dello sciupio di preziose energie ancora prima del via, come per lo sciopero dei mezzi di trasporto pubblico, ne va preso solo atto, perché la pancia ineluttabile si prende tute le rivincite di classe avverso la ragione, pianificazioni di lunga portata e strategie altrimenti programmate. Tant’è che la pancia comanda anche al via: parto in un settore avanzatissimo, allo schieramento le gazzelle nere sono lì visibili a meno di quindici metri da me e allo sparo tutti scattano ad un ritmo da miglio in pista piuttosto che da quarantadue chilometri e spicci a cui necessariamente conformarsi o essere travolti. Dopo i su e giù per i bastioni di porta Venezia ci sarebbe spazio e modo per riprendere il controllo e rimettersi in linea con ritmi sostenibili con meno rischi, però i tanti che mi superano stimolano l’agonismo istintivo che, come scientificamente noto, si trova appunto in un recondito e lobo della pancia incontrollabile. Alcuni chilometri si chiudono così anche venti secondi sotto il ritmo programmato, come dire in caso di autovelox multone e ritiro della patente. Ma oggi è il giorno della maratona, stiamo passando per le vie del centro della mia città, il pubblico, qui benevolmente a passaggio a piedi, applaude ed incita mentre numerosi fotografi sparano raffiche di scatti e chi mai con le gambe ancora piene di forze e tanto fiato vorrà mai fare lo sparagnino e deludere gli astanti? Verso il dodicesimo chilometro però, nelle vastità di via Washington e procedendo con un fastidioso vento contrario incomincio a realizzare l’incresciosa situazione in cui mi sono ficcato. Sono rimasto in uno sparuto gruppetto, sempre malintenzionato a tenere ritmi elevati con davanti e soprattutto dietro il vuoto. A questo punto rallentare per attendere alleati più a misura equivarrebbe a continuare per troppo tempo da solo esponendosi ad un faticoso lato di bolina con il mare contro, perciò tanto vale tenere duro e stare a vedere cosa succede. Che poi succede dopo aver passato la misura della mezza con anticipo di due minuti: ecco l’inedita sorpresa di un improvviso e lancinante dolore al fianco destro (fegato, diaframma?), che tento di tamponare premendo l’addome con una mano. Dopo lunghi minuti di smorfie e silenziose imprecazioni riesce inspiegabilmente a risolvere la crisi lo spostamento nella cinta dei pantaloncini sul lato dolente di una taumaturgica spugnetta già in dotazione per altri usi. Intanto però ho pure corso sbilanciato per qualche chilometro e, come avendo scosso un complesso sistema di precari equilibri architettonici, qualche crepa si apre nella delicata tenuta della struttura muscolare. E’ un dolorino pungente alla coscia destra che accende una di quelle fastidiose spie sul cruscotto, proprio di quelle che cerchi di ignorare perche tanto tra un po’ arrivi a casa e forse spariscono da sole. Invece al trentesimo chilometro se ne accende un'altra con i quadricipiti di tutte e due le gambe in veloce processo di marmorizzazione, caratterizzato da un dolore non ignorabile fischiettando. Poco dopo ci prova anche un polpaccio a dire la sua con un accenno di crampo, ma tutto il resto del corpo pancia compresa ricusano questa impropria insinuazione come il capriccio di un bambino viziato da ignorarsi nella maniera più risoluta affermando più o meno: “ti pare il momento, no, adesso no, ne parliamo casomai a casa”. Il polpaccio si tace istantaneamente consentendo di proseguire nel viaggio pur con crescente fatica.
Allorquando spunta dalle nuvole in diradamento un sole non proprio benevolo al maratoneta come al vampiro, prende il controllo se non la ragione la sofferenza ed al trentacinquesimo, dopo il gran premio della montagna al Portello necessariamente riduco la velocità, venendo prontamente superato a ripetizione da frequenti trenini di atleti regolari, con tra l’altro grandi benefici sul morale. Ormai è pura lotta della volontà sul corpo il quale di suo chiede di sdraiarsi nei prati del parco Sempione o almeno semplicemente camminare sulle immonde salite dei bastioni.

Una bottiglietta d’acqua rovesciata in testa a mo’ di ciclista bollito, qualche smorfia e va in scena il rettilineo finale dove il calore del pubblico rende possibile un goffo allungo, simulacro di corsa dignitosa, senza essere superato dai pacer delle tre ore. Finischer, poi ci penserai al senso di questa grande fatica, di tutte quelle che l’hanno resa possibile in allenamenti probabilmente nemmeno concepibili per molti padri di famiglia non proprio giovanissimi e del coacervo di emozioni e sentimenti collegati. Adesso, intanto, ci sarebbero solo gesti banali quali ad esempio piegarsi per cambiare le scarpe o discendere le scale del metrò e a sensazione non sarà per niente facile, no. Si accomodi pure alla cassa prego.
 

 

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